Pensieri meridiani: il Sud tra marginalità e opportunità
In una poesia del 1953 lo scrittore e sindacalista Rocco Scotellaro scriveva:
Qui vicino cresce un nuovo cantiere,
dodici bambini che non vanno a scuola
tengono ai Granili un cantiere,
chi porta i tufi e chi tiene la cazzuola.
La legge che in Italia porta tutti alla terza media è di nove anni dopo. E nell’arco di un decennio, dal 1962 al 1972, vanno a scuola quasi tutti i bambini destinati all’analfabetismo e al lavoro servile (Scotellaro-Rossi Doria, 2024). Al netto dei ritardi, una buona legge ha prodotto buoni risultati. La politica, quando semina in modo lungimirante, può creare le condizioni dell’educazione, della crescita e dell’uguaglianza.
Ha scritto Patrizio Bianchi: “Esiste uno stretto legame fra educazione e sviluppo. Uno sviluppo socialmente ed economicamente sostenibile nel tempo si fonda sulla capacità di organizzare le competenze, le abilità manuali e il giudizio critico delle persone, e di trasformare queste in quel valore aggiunto che è la vera ricchezza di una comunità” (Bianchi, 2020).
A distanza di sessant’anni dalla scuola media unica ci ritroviamo in uno scenario completamente mutato. E, se vogliamo guardare le cose da Sud, ulteriormente complesso.
La rappresentazione dell’Italia meridionale come realtà patologica - e quindi arretrata e in ritardo - è una costruzione culturale elaborata dall’esterno, secondo un’idea di modernizzazione decisa altrove. Il Sud sarebbe un Nord eternamente imperfetto, indisciplinato, impreparato, subalterno rispetto a un modello di sviluppo guidato dagli interessi delle aree forti.
Questo limite è appesantito dalle mafie e dalle massonerie, dall’emigrazione cattiva e dagli storici limiti di una classe dirigente e di una borghesia che Gabriele De Rosa ha definito “parassitaria, di mediazione e di favore”.
Eppure in questo limite c’è anche paradossalmente un potenziale: la possibilità di pensare il Sud come punto di vista critico, come forma diversa e autonoma della modernità, e quindi estranea alle sue conquiste, ma anche alle sue patologie (Cassano, 2009). La resistenza al cambiamento non sarebbe dunque solo una zavorra conservatrice, ma la precisa richiesta di una vigilanza critica sul presente, sul fondamentalismo della velocità e della produzione e su alcuni profondi fraintendimenti.
Un esempio è l’enfasi che in questi anni è stata riservata in campo educativo alle nuove tecnologie, un fenomeno importante, ma assunto in modo acritico che ha riempito le aule di smartphone, tablet e lavagne digitali (laddove è stato possibile, non ovunque). In realtà, dotare le scuole di computer e di software per la didattica ha conseguenze che andrebbero esaminate. Si tratta di strumenti ad alto tasso di sostituzione, cioè che invecchiano presto, comportano costi elevati per la manutenzione e l’aggiornamento, sottraggono risorse alle biblioteche scolastiche, ai laboratori e alle palestre, alla qualificazione degli insegnanti, approfondendo il divario tra chi può accedere ai beni intellettuali e chi ne resta escluso (Scotto di Luzio, 2015).
Dopo otto secoli in cui il fondamento e il titolo di legittimazione delle istituzioni scolastiche e universitarie occidentali è stato il modo libresco di considerare gli scritti, dobbiamo prendere atto che la metafora fondamentale della nostra epoca non è più il libro, ma lo schermo (Illich, 1994, Cataluccio 2010).
Tuttavia, «non è detto che l’attuale homo videns, educato più sulle immagini che sul pensiero concettuale, non abbia una propria attitudine critica e riflessiva e non sia dotato di un particolare stile conoscitivo», frutto di un’intelligenza simultanea che prevale sull’intelligenza sequenziale (Garelli, 2017).
Riflettere, in un mondo digitale, sulle potenzialità non digitali del sapere significa però ragionare criticamente anche sulle modalità di comprensione dei meccanismi stessi delle nuove tecnologie, che non andrebbero considerate in modo quasi magico; inoltre, poiché non esiste un’unica soluzione alla loro introduzione nell’insegnamento, l’attenzione dovrebbe essere spostata sulla concretezza delle situazioni di apprendimento. E su un approccio critico che consenta di individuale le manipolazioni e le falsificazioni visive dei nuovi strumenti come l’intelligenza artificiale, destinata a mutare in modo radicale il nostro rapporto con le parole e le immagini, incidendo, come sta già avvenendo, sulle professioni di scrittura e grafica, ma anche sulla didattica e la ricerca.
Un secondo fraintendimento riguarda l’ideologia del merito. Non beninteso quello evocato dalla nostra Costituzione, ma l’imposizione di un modello competitivo e comparativo che si rivela funzionale solo al mercato e alle logiche neoliberiste. La stessa dinamica si attiva negli innumerevoli tentativi di comparare le università a livello nazionale e internazionale stabilendo criteri di un’eccellenza totalmente staccata dalle culture locali e dai territori.
Proviamo per un istante a prendere in esame i temi del merito in contesti contrassegnati da forte dispersione scolastica o in esperienze educative tese al recupero di ragazzi poco scolarizzati che vivono in famiglie problematiche o in quartieri ad alto tasso di disagio sociale e di criminalità diffusa.
Qui le stesse parole – merito, tecnologia, eccellenza e molte altre – sono prive di significato: non ci sono né meriti, né riconoscimenti, né punizioni perché la discontinuità nella frequenza, l’abitudine ad esprimersi con gesti violenti, l’impossibilità a seguire percorsi prestabiliti e strutturati spostano inevitabilmente l’intervento educativo su assi differenti. Il programma, gli esami, il merito, la lavagna elettronica perdono di centralità e lasciano spazio ad azioni di ascolto paziente, di accoglienza, di rimotivazione, di restituzione di senso, di trasferimento della deriva emotiva e dell’aggressività su un piano simbolico.
“Un insegnante di media cultura e umanità – ci ha ammonito Carla Melazzini (2011) - è presumibilmente disponibile a commuoversi sul dramma del giovane principe di Danimarca, e a riconoscere le ragioni dei suoi atti, anche i più estremi. Ma quanti insegnanti sarebbero disposti a riconoscere la stessa legittimità al sentimento di un adolescente di periferia che vive il tradimento della propria madre con l’intensità e la consequenzialità del principe Amleto?”
Sono proprio questi contesti a restituire centralità alla relazione educativa, al ruolo degli insegnanti e, soprattutto, al compito di modificare e, se possibile, invertire, le condizioni di partenza, sottraendo i ragazzi alle partiture già scritte da altri.
Ogni attività educativa è efficace solo se crea i presupposti che consentono di ereditare la libertà e l’autonomia, partendo dalle domande e dai problemi e orchestrando la raccolta delle conoscenze. E la stessa pedagogia andrebbe considerata un luogo di incontro delle scienze della vita, frantumando le separatezze dei percorsi disciplinari e sollecitando le università a riflettere sul tipo di conoscenza che producono (Caligiuri, 2021) perché l’educazione è prevalentemente un problema politico, cioè di visione della società presente in funzione di quella futura.
L’università dovrebbe essere il luogo deputato alla riproduzione del corpus del sapere, alla condivisione, alla trasmissione e al rinnovamento delle conoscenze, ma in realtà non è più la via di accesso privilegiata alla conoscenza.
La crisi del sistema accademico, in questo senso, è anche il segnale di una crisi di relazione con il sapere che coinvolge i codici e i simboli che strutturano il legame sociale.
Ogni società si basa su un sistema condiviso, anche se sempre dinamico, fatto di lingua, segni, simboli, rappresentazioni del mondo, linguaggi corporei, comportamenti codificati. Potremmo dire che la condivisione dell’implicito è il requisito stesso della cultura (Roy, 2024). E se ci troviamo nel pieno di una crisi è perché la trasformazione delle culture in sistemi di codici ne distrugge la nozione stessa, riducendola a un sistema di norme esplicite e fuori contesto.
La deculturazione mette da parte l’evidenza condivisa, si ripiega su identità povere, fatte di marcatori fluttuanti isolati dal contesto, o su tratti folklorici, riduce le relazioni sociali a processi morali o giudiziari e si appella a una pedagogia autoritaria al fine di imporre nuove norme.
Perché la norma è sempre la prima risposta che viene offerta di fronte alla crisi del sapere, ma non riesce ad accendere l’immaginazione, che resta la funzione propria di ogni cultura (Roy, 2024).
Nel 1977 Desmond Ryan, ricercatore dell’Università del Sussex, si domandava se l’Ateneo di Arcavacata, a Cosenza, fondato pochi anni prima, avrebbe trasformato la società calabrese o sarebbe stato risucchiato nelle logiche dell’arretratezza e del sottosviluppo. Dopo mezzo secolo, ognuno può compiere un primo bilancio su come il sistema universitario abbia inciso nel progresso del territorio regionale. Evidenziando i meriti innegabili senza nascondere i problemi disattesi, per esempio lo scenario surreale in cui gli studenti calabresi risultano spesso ultimi nelle classifiche in Italia, ma contemporaneamente i primi come diplomati con cento e lode (Caligiuri, 2023).
Anche per l’università, soprattutto per le università del Sud, diventa sempre più urgente e necessario abbandonare i luoghi protetti, assecondare un’evidente domanda di socialità, contribuire a formare quel livello necessario di solidarietà in grado di generare cambiamento. E saper accogliere le contraddizioni delle nuove tecnologie e del merito senza rinunciare a restituire centralità a un’autentica e quindi onesta relazione educativa.
Perché la disperazione più grande che possa impadronirsi di una società – ci ha ricordato lo scrittore Corrado Alvaro - è il dubbio che essere onesti sia inutile.
Roberto Alessandrini
Riferimenti bibliografici
Patrizio Bianchi, Nello specchio della scuola, Bologna, il Mulino, 2020.
Mario Caligiuri, La pedagogia meridiana. Un progetto culturale per il rilancio dell’Italia, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2021.
- La responsabilità disattesa. L'Università della Calabria e la pedagogia: politiche educative e sottosviluppo nell'Occidente, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2023.
Francesco M. Cataluccio, Che fine faranno i libri? Roma, Nottetempo, 2010.
Franco Cassano, Tre modi di vedere il Sud, Bologna, il Mulino, 2009. Franco Garelli, Educazione, Bologna, il Mulino, 2017.
Ivan Illich, Nella vigna del testo. Per una etologia della lettura, 1994.
Carla Melazzini, Insegnare al principe di Danimarca, Palermo, Sellerio, 2011.
Olivier Roy, L’appiattimento del mondo. La crisi della cultura e il dominio della norma, Milano, Feltrinelli, 2024.
Rocco Scotellaro - Manlio Rossi-Doria, Fare scuola al Sud. Scritti su divario educativo, disuguaglianze e democrazia, Palermo, Sellerio, 2024.
Adolfo Scotto di Luzio, Senza educazione. I rischi della scuola 2.0, Bologna, il Mulino, 2015.