Pinna Edoardo
Dottorato di Ricerca in Tutor Professor Giovanni De Cristofaro Titolo tesi "Una rilettura sostanziale della conoscibilità in tema di condizioni generali di contratto, alla luce del canone comunitario della trasparenza ex art. 5 Dir. 93/13/CEE nel contratto del consumatore e nel contratto tra professionisti."
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Posta elettronica | edoardo.pinna@edu.unife.it |
Curriculum Vitae | CV |
Abstract |
Il concetto di «trasparenza» permea l’intera disciplina dei contratti del consumatore. Tale espressione acquisisce diverse accezioni all’interno dell’asimmetria contrattuale che è immanente alla materia. In un’accezione ristretta, trasparenza è approssimativamente la chiarezza e la comprensibilità̀ delle clausole dell’accordo, rilevante ai sensi e per gli effetti dell’art 4 par. 2 direttiva 93/13/CEE. La c.d. trasparenza latu sensu si riferisce, invece, al reticolato di doveri informativi che gravano sul professionista quale parte del rapporto contrattuale: si pensi, a puro titolo esemplificativo, all’obbligo di consegna dei documenti informativi relativi al rapporto contrattuale a chiunque ne faccia istanza, ex art. 70, primo comma, d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206. Ed è in tale contesto che si inserisce la direttiva 93/13/CEE concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori. Si registra, infatti, che l’attuale tendenza normativa, anche comunitaria, guarda con favore la costruzione di un mercato governato dalla c.d. fair competition, rectius un sistema contrattuale che abbia come modus operandi quello della buona fede. Tale direttiva assurge a strumento realizzativo di una forma di armonizzazione delle legislazioni nazionali. Tale istituto presuppone una collaborazione degli Stati nella fase di attuazione del singolo atto normativo di natura sovranazionale, sulla base di un obbligo assunto dagli Stati membri ai sensi dell’art. 4, par. 3, del Trattato sull’Unione europea. Molto spesso, ed a fortiori in tale delicato ambito, ci si affida alla c.d. armonizzazione minima: l’Unione Europea detta una protezione minima, consentendo agli Stati membri di derogare in melius, quindi di predisporre una disciplina che tuteli in modo più pregnante il contraente debole. A tal proposito occorre rammentare la vox legis di cui all’art. 8 dir. 93/13/CEE, in ragione del quale ‹‹Gli Stati membri possono adottare o mantenere, nel settore disciplinato dalla presente direttiva, disposizioni più severe, compatibili con il trattato, per garantire un livello di protezione più elevato per il consumatore›› I reali custodi dell’armonizzazione comunitaria in materia di contratti asimmetrici sono proprio i consumatori medesimi, i quali - in occasione di controversie nazionali, per il tramite dello strumento del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea ex art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea - chiedono alla giurisdizione comunitaria di vagliare le corrispondenza tra le norme dell’ordinamento interno che vengono in rilievo per il singolo caso concreto e gli obiettivi di armonizzazione cui tendono le singole direttive. Ecco che la Corte di Giustizia dell’Unione europea, con le sue pronunce, persegue l’obiettivo di garantire un’interpretazione coerente ed univoca della direttiva, in funzione degli obiettivi perseguiti. Occorre solo puntualizzare che sarà compito spettante al giudice nazionale l’applicazione della singola norma nazionale che attua le direttive. Dalla c.d. armonizzazione minima, che è uno degli essentialia della dir. 93/13/CEE, discendono due conseguenze giuridicamente rilevanti: da un lato, infatti, è ammessa dal legislatore comunitario la derogabilità in melius della littera legis, e dall’altro il ruolo armonizzante delle direttive europee porta con se la necessità di raggiungere dei compromessi normativi, con la conseguenza che il dettato normativo sovrannazionale risulta volontariamente affetto da forme di ricercata genericità̀. Tale problematica assume un particolare rilievo con riferimento alle c.d. clausole floor, che caratterizzano la maggioranza dei contratti di mutuo a tasso variabile. Con l’inserzione di tale clausola c.d. suelo, si prevedeva nel regolamento contrattuale un tasso minimo di interesse garantito. Il Tribunale spagnolo, adito a fronte di una class action di consumatori, giovandosi della littera legis di cui all’art.8 dir.13/93, rectius della clausola di armonizzazione minima, “crea” ex novo l’equivalenza giuridica tra non trasparenza e vessatorietà, riconducendo tale tipologia di clausola all’oggetto principale del contratto ex art 4 par. 2 della direttiva e sottraendola de facto al controllo giurisdizionale di vessatorietà, a condizione però che fosse redatta in modo chiaro e comprensibile. Ai sensi dell’art. 6 dir. 93/13/CEE ‹‹Gli Stati membri prevedono che le clausole abusive contenute in un contratto stipulato fra un consumatore ed un professionista non vincolano il consumatore››. L’art. 1306 del codice civile spagnolo esplica la non vincolatività̀ delle clausole abusive in termini di nullità. Ne deriva che anche l’art. 6 dir. 13/93/CEE congloba in sé un gradiente di armonizzazione minima, nulla dicendo circa il dies a quo rispetto al quale opererebbe la non vincolatività̀ della clausola abusiva. A tal proposito, il giudice di prime cure spagnolo, sul presupposto della buona fede degli istituti di credito, opta per una nullità della clausola suelo operante ex nunc, con dies a quo rappresentato quindi dalla pubblicazione della sentenza, e non invece dalla conclusione dell’accordo. La Corte di Giustizia dell’Unione Europea è chiamata a pronunciarsi sulla conformità della decisione del Tribunale spagnolo alla direttiva, che tuttavia presenta una ricercata genericità in nome di quell’obiettivo di armonizzazione minima che permea l’intero atto normativo. Ergo, qualunque sia la natura della decisione della Corte, essa andrà ad integrare l’art. 6 della direttiva, consentendo quindi l’azzardata ma realistica conclusione che la Corte di Lussemburgo possa efficacemente anelare ad una funzione creativa del diritto. In concreto la Corte di Giustizia europea ha sottolineato che l’irretroattività della nullità delle clausole costituirebbe un aliud rispetto alla ratio della normativa ispirata alla tutela del contraente debole. Appropinquandoci al punctum dolens del problema, occorre precisare che le clausolas c.d. suélo non formerebbero oggetto del giudizio di vessatorietà ex art. 4 par. 2 dir. 93/13/CEE in quanto esse definirebbero l’oggetto principale del contratto con una funzione individuatrice delle prestazioni essenziali che ne connotano il contenuto. Sempre in ragione del principio di armonizzazione minima di cui all’ art. 8 della direttiva in esame, il giudice spagnolo avrebbe creato, quasi alla stregua di un praetor romanistico con potere di dicere ius supplendi causa, l’equivalenza tra la non trasparenza di una clausola e la sua vessatorietà. A tal proposito, a più riprese la Corte di Giustizia dell’Unione europea ha chiarito l’area semantica che ruota attorno al concetto di trasparenza. Ella ha interpretato il concetto di trasparenza in senso estensivo: la clausola economica, rectius quella che ha una funzione individuatrice dell’oggetto dell’accordo, sarebbe soggetta ad un doppio sindacato di trasparenza: in primis quello lessicale, e a seguire quello economico. In tanto la clausola economica potrà qualificarsi come trasparente in quanto sia in grado, anche solo in potenza, di far cogliere al contraente debole, sulla base di criteri intellegibili, quale sia il sacrificio economico del contratto che grava sul consumatore. Nello specifico, il punctum dolens su cui la Corte di Giustizia è chiamata a pronunciarsi è il seguente: stabilire se la clausola che prevede che il corso di vendita di una valuta estera rilevante ai fini del calcolo dei rimborsi di un mutuo, espresso in siffatta valuta, rientri nell’«oggetto principale del contratto» di mutuo. In caso affermativo, occorre tenere presente che l’ art. 4 comma 2 della direttiva ne disciplina il sindacato di abusività, rectius di trasparenza, con riferimento alle sole clausole contrattuali. Ed ecco che, sempre in virtù del nobile intento di armonizzazione minima cui è incline la direttiva in esame, potrebbe tornare in auge la forma mentis del giudice di prime cure spagnolo nel caso della clausole c.d. floor, che spingerebbe a far ricorso all’equivalenza tra non trasparenza e vessatorietà. Un ulteriore contributo a questa problematica concerne il caso Matei , funzionale alla risoluzione di una vexata quaestio: la natura abusiva delle clausole relative al carattere variabile del tasso di interesse e alla «commissione di rischio» inserite in un contratto di credito al consumo. Rectius, ci si chiede se tali clausole siano sussumibili nel concetto di ‹‹oggetto principale del contratto›› ex art. 4 della direttiva, il quale prevede dunque una deroga al giudizio di merito circa l’abusività delle clausole c.d. contrattuali. Quantunque spetti al giudice del rinvio la scelta se ricondurre tali clausole nell’alveus dell’art. 4, la Corte di Giustizia con vari argomenti afferma che le clausole de quibus non rientrerebbero nell’applicazione dell’art. 4 comma 2, e non si sottrarrebbero di tal guisa al controllo di merito circa il carattere abusivo. Ma nel caso in cui il giudice nazionale riconducesse tali clausole nell’orbita dell’art. 4, vi sarebbe comunque la norma precettiva eccezionale sulla trasparenza. Secondo i “Giudici di Lussemburgo”, tali clausole saranno qualificabili come “trasparenti” nel caso in cui il contratto esplichi in modo intellegibile il motivo e le modalità del meccanismo di modifica del tasso di interesse, nonché il rapporto tra tale clausola e altre clausole relative alla remunerazione del mutuante. In definitiva il requisito si riterrà integrato quando un consumatore possa prevedere, in base a criteri chiari e comprensibili, le conseguenze economiche che gliene derivano. Nella prosecuzione della rappresentazione icastica di tale concetto di trasparenza, assume rilevanza la pronuncia con cui i “Giudici di Lussemburgo” si sono interrogati sulla sussumibilità nella littera legis dell’art. 4 della direttiva, di una clausola, stipulata in un contratto di assicurazione, inteso a garantire la presa a carico delle rate dovute al mutuante, in caso di inabilità totale al lavoro del mutuatario. Tale accordo esclude all’assicurato il beneficio della garanzia, se viene dichiarato idoneo ad esercitare un’attività non retribuita. Sulla base dell’interpretazione del sintagma “oggetto principale del contratto” ed alla luce del XIX considerando sussunto nell’incipit della direttiva, secondo la Corte di Lussemburgo, tale clausola delimita il rischio assicurato, fissando la prestazione essenziale del contratto di assicurazione. Pertanto tale clausola rientrerebbe nell’ambito applicativo dell’art. 4 della direttiva, sottraendosi al giudizio di merito di abusività, sub condicione che tali clausole siano redatte in modo chiaro e comprensibile. Come un lume di continuità rispetto alle precedenti statuizioni, la Corte di Giustizia chiarisce ex novo che l’obbligo di trasparenza non assurge alla sola intellegibilità formale della clausola contrattuale. Esso forma un unicum con l’obbligo di informazione sulle condizioni dell’impegno, ex ante alla stipula dell’accordo, nonché con l’indicazione del quid proprium della presa a carico delle rate dovute al mutuante (per l’ipotesi di inabilità totale al lavoro del mutuatario) e financo con il nesso relazionale tra tale meccanismo e quello prescritto da altre clausole. Così il consumatore è in grado di valutare, sul fondamento di criteri precisi e intelligibili, le conseguenze economiche che gliene derivano. Un ulteriore contributo all’evoluzione della nozione di «trasparenza» è dato dalla pronuncia della Corte di Giustizia nel caso “Andriuciuc”: in questo casus belli, la Corte si pronuncia sul carattere abusivo di clausole inserite in contratti di credito che prevedono, in particolare, il rimborso nella stessa valuta estera nella quale sono stati concessi. Secondo i Giudici europei, vagliata in primis la non riconducibilità di tali clausole nell’alveus dell’art. 1 par. 2 della direttiva 93/13/CEE, occorre poi verificarne la riconducibilità all’«oggetto principale del contratto» ex art. 4. La Corte segue un iter logico in base al quale, la clausola del contratto di credito al consumo che prevede che l’obbligazione restitutoria debba essere adempiuta in una determinata valuta, riguarda la ratio essendi della prestazione stessa, e come tale assurge ad uno degli essentialia negotii. Diretta conseguenza di questo iter argomentativo è che tale clausola non può essere ritenuta abusiva, a condizione che sia stata formulata in modo chiaro e comprensibile. Le clausole de quibus sono da considerarsi trasparenti in quanto contengano sufficienti informazioni sulla portata dell’impegno del consumatore avveduto e che gli consentono di valutare, segnatamente, il costo totale del suo mutuo. Rectius, posto che le fluttuazioni del tasso di cambio dovute alla svalutazione della moneta nazionale erano conosciute o quantomeno conoscibili dal mutuante, l’informazione distorta sui rischi potenziali di tale clausola è foriera di una forma di «intrasparenza decettiva», in quanto impedisce al mutuatario di valutare, in una visione prognostica pro futuro, l’impatto sulla sua personale situazione finanziaria con riferimento al surplus restitutorio di cui sarà gravato. Tenuto conto del modus operandi della Corte di Giustizia in tali pronunce, si può notare come, dalla nozione di «trasparenza», così interpretata dai “Giudici di Lussemburgo”, discendono una serie di profili problematici della fattispecie che si prestano ad essere sviluppati nell’approfondimento di tale nodo tematico. In primis, questo progetto, alla luce delle considerazioni testé svolte, è prodromico quantomeno a mettere in discussione l’orientamento dottrinale che tenderebbe ad accusare la Corte di Lussemburgo di fare dell’intrasparenza il fondamento unico del giudizio di vessatorietà, con riferimento alle clausole relative all’«oggetto del contratto». In secundis, con tale elaborato si vuole evidenziare la problematica relativa ai profili rimediali in tema di vessatorietà. A fronte di un’armonizzazione minima come quella che permea la direttiva 93/13/CEE, è pacifico che il legislatore nazionale possa introdurre una deroga in melius alla normativa contenuta nella direttiva, quale ad esempio far assurgere l’intrasparenza ad unico elemento costitutivo della fattispecie dell’abusività, assolutamente sganciato da ogni valutazione concreta dell’iniquità, rectius dello squilibrio significativo. Occorre ricordare che spetta alla Corte di Giustizia stabilire la conformità o meno della normativa nazionale al diritto europeo. Ma quid iuris se il legislatore nazionale non attua questa deroga in melius? Poiché con armonizzazione minima non si allude ad uno scadente livello di tutela per il consumatore, bensì ad una forma di protezione uniforme, che potrebbe essere già di per sé elevata, si può validamente prospettare l’idea che, nell’ipotesi testè menzionata, non ci si trovi di fronte ad un vulnus legislativo. Pertanto, il giudice nazionale, diversamente dal modus operandi del giudice spagnolo di prime cure nel caso delle c.d. clausolas suélo, non è facoltizzato ad attuare questa deroga in melius, ma solamente a sollevare la questione di pregiudizialità dinanzi alla Corte di giustizia qualora ravvisi il mancato rispetto della normativa europea. In definitiva tale progetto di tesi risulta essere funzionale all’individuazione di un modus operandi della Corte di Giustizia che, attraverso un’interpretazione estensiva della nozione di ‹‹trasparenza›› delle clausole economiche, fornisce uno strumento di maggior rilievo nella tutela del contraente debole in tale contesto di asimmetria contrattuale. Tale linee guida sembrano sortire un certo effetto anche nel contesto nazionale, dove oramai è pacifico che il giudizio di vessatorietà si componga di due elementi costitutivi: in primis, occorre che si tratti di una violazione delle regole di buona fede da parte del professionista che inserisce nel contratto una clausola intrasparente. In secundis, perché una clausola possa essere definita abusiva dal giudice nazionale, occorre che in ragione di esse si configuri un quid pluris di squilibrio contrattuale rispetto alla normale asimmetria che connota l’intera materia.
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